Il titolo scelto per questa edizione, “Abitare il cambiamento: modelli e stili di vita per il futuro”, rappresenta molto più di una semplice etichetta programmatica: costituisce un invito a guardare al domani con consapevolezza, riflettendo sulle responsabilità dell’architettura di fronte alle grandi sfide globali che attraversano il nostro tempo. Crisi climatica, trasformazione tecnologica alimentata dall’intelligenza artificiale, rigenerazione urbana, tutela del patrimonio, coesione sociale: l’architetto contemporaneo è chiamato a farsi mediatore tra tecnologia, ambiente e comunità, a costruire ponti tra memoria e innovazione, tra sostenibilità e qualità della vita. Gli interventi che hanno animato le tre giornate hanno affrontato il tema dell’abitare da prospettive molteplici e complementari, dimostrando come la complessità delle sfide contemporanee richieda approcci interdisciplinari che sappiano intrecciare dimensioni etiche, ambientali, sociali, economiche e tecnologiche.

Dall’etica della sostenibilità alla riflessione sull’abitare, dai limiti delle aree interne alle soluzioni basate sulla natura, dalle architetture native ai progetti spaziali, l’evento ha costruito una narrazione corale che restituisce la ricchezza e la complessità del dibattito architettonico contemporaneo.

Un futuro etico e inclusivo: la dimensione morale dell’abitare

La riflessione etica costituisce il fondamento imprescindibile per immaginare modelli di abitare che siano effettivamente sostenibili e inclusivi. La necessità di far emergere una coscienza planetaria capace di riorientare la convivenza umana e generare speranza rappresenta oggi un’urgenza che non può essere elusa. Riconoscere il valore della vita come dono da custodire e condividere in modo equo richiede la costruzione di un sistema di principi universali che guidino lo sviluppo umano e ambientale in modo responsabile. L’antropocene, quest’epoca nella quale l’azione umana è diventata la forza geologica dominante sul pianeta, presenta un intreccio di situazioni critiche dove la questione climatica, pur estremamente importante, si intreccia con un sistema di disvalori consolidati: l’illusione del dominio illimitato sulla natura e il miraggio di un progresso economico autoregolato alimentato dal solo interesse privato hanno generato degrado ambientale, pericolosi cambiamenti climatici, esaurimento delle risorse, ma anche globalizzazione che produce disuguaglianze, discriminazioni, nuove schiavitù, conflitti continui e soprattutto la perdita del senso e del valore della persona umana in quanto tale.

La risposta a questa crisi sistemica passa attraverso quella che viene definita “etica della sostenibilità”: la ricerca di un quadro unitario di principi etici e valori universali che possano guidare gli sforzi umani a promuovere la sostenibilità a 360 gradi, ma anche la ricerca di un quadro etico che sia esso stesso sostenibile per tutto il creato. I principi fondamentali individuati dalla dottrina sociale sono la solidarietà, intesa come ricerca del bene di ciascuna persona e di tutta la comunità anche a livello planetario, la sussidiarietà, che significa approcci globali senza imposizioni dall’alto ma con strumenti concreti e autorevoli dove tutti si sentono parte integrante del processo, e il principio di custodia, quindi la cura e l’attenzione non solo della dignità della persona umana ma anche di ogni essere vivente.

La casa come questione sociale: rendita, accessibilità e nuove forme di abitare

La dimensione economica dell’abitare rappresenta oggi uno dei nodi più critici e meno affrontati nel dibattito pubblico italiano. L’aumento del valore del suolo, che si è staccato dal costo di costruzione a partire dalla metà degli anni Settanta, ha innescato una dinamica per cui la rendita fondiaria e immobiliare è più che raddoppiata mentre i salari sono rimasti fermi e i profitti sono crollati. Questo meccanismo, che si autoalimenta perché meno i salari crescono più importante diventa la casa a uso investimento, ha trasformato profondamente il significato stesso dell’abitare: da diritto sociale a bene di lusso accessibile solo a chi possiede già un patrimonio o può contare su welfare familiare. Oggi, se non si possiede già una casa di proprietà in una delle principali città italiane, non si può nemmeno lavorare lì. Questo sta comportando problemi di carenza di lavoratori essenziali, ma anche di medici, infermieri e ceto medio. Nel 1998 il reddito medio familiare cresceva più del prezzo medio di acquisto dell’abitazione e del canone medio di locazione; solo dieci anni dopo, nel 2008, la situazione era diametralmente opposta. Oggi viviamo in quella che l’Economist ha definito “ereditocrazia”: conta più quello che si eredita rispetto a quello che si riesce ad acquisire con il lavoro. La costruzione di nuove case, se non mirata attraverso politiche pubbliche a soggetti meno abbienti, è rivolta a un target abbiente e si traduce in un’offerta sempre più di lusso. Il mercato degli studentati privati rappresenta un esempio paradigmatico di questa evoluzione: include servizi che dovrebbero essere pubblici (palestre, piscine, aule studio) nel prezzo finale, giustificando canoni altissimi. Se questi servizi fossero davvero pubblici, potrebbero calmierare gli affitti perché non concorrerebbero a determinare quei canoni molto alti. Invece le politiche pubbliche, non solo non intervengono per costruire un’offerta alternativa a quella di mercato, ma si limitano a creare lo scenario legale entro cui queste nuove forme possono nascere, finendo molto spesso per finanziare direttamente questa offerta di abitare di lusso. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha destinato oltre un miliardo a gestori privati di alloggi per studenti e a fondi di investimento, non alla creazione di posti letto gestiti dagli enti per il diritto allo studio.

Dai limiti alle opportunità: le aree interne come laboratori di futuro

Il tema delle aree interne italiane rappresenta forse la contraddizione più evidente tra retorica e realtà nelle politiche territoriali nazionali. La Strategia Nazionale per le Aree Interne parla esplicitamente di “accompagnare con dignità” al declino, una formulazione che suona come una resa preventiva di fronte a una trasformazione epocale. Eppure le testimonianze che provengono da questi territori raccontano una storia diversa: resistenza, voglia di rimanere, necessità di essere riconosciuti come cittadini e non come sudditi.

In un’Unione di Comuni Montana vivono 90 trentenni che, intervistati, hanno espresso quasi tutti la volontà di rimanere, consapevoli delle difficoltà ma determinati a non abbandonare.

Il problema più grave è che senza interventi immediati le poche persone che ancora resistono in montagna se ne andranno, e questo significherebbe la perdita irreversibile di saperi, mestieri, culture materiali che hanno plasmato questi territori per secoli. La produzione di canovacci del Treppio nel ‘700-’800 era talmente rilevante che il prezzo dei canovacci a Prato e Pistoia si faceva sul prezzo dei canovacci di Treppio. Oggi non c’è più nessuno in grado di fare un corbello di castagno, eppure l’azienda che produceva vetro si era insediata proprio lì perché i locali erano bravissimi a fare il corbello intorno alle damigiane.

Parallelamente sta però emergendo un fenomeno nuovo e potenzialmente rivoluzionario: un processo di neo-popolamento delle aree montane. Tra il 2019 e il 2023, per la prima volta, alcune aree montane del Nord Italia hanno registrato un saldo positivo di popolazione italiana (non stranieri immigrati). Si tratta di giovani, persone che lavorano da remoto, famiglie che cercano alternative al costo della vita urbana e alla qualità ambientale delle città. Bologna è diventata così cara che molti giovani si sono trasferiti nei comuni dell’Appennino, distanti comunque 40 minuti. Le aree interne possono diventare davvero laboratori di futuro se sapremo evitare di replicare le dinamiche speculative che hanno reso inabitabili le città. Il neo-popolamento in atto rappresenta un’opportunità storica per sperimentare modelli di abitare diversi, più sostenibili, più comunitari, più radicati nei territori. Ma questo richiede politiche pubbliche coraggiose che non si limitino ad “accompagnare con dignità” il declino ma investano in servizi, connettività, opportunità lavorative, riconoscimento della cittadinanza piena anche per chi sceglie di vivere lontano dai centri urbani principali.

Soluzioni basate sulla natura e transizione digitale: un approccio integrato

La duplice transizione verde e digitale, finita anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, richiede una visione integrata che sappia evitare contraddizioni e massimizzare sinergie. A queste due transizioni se ne è aggiunta una terza, quella demografica, che non riguarda solo i numeri totali (l’Italia è in decrescita) ma anche gli squilibri territoriali. Le Nature-based Solutions rappresentano un concetto evoluto nel tempo, legato allo sviluppo sostenibile che dal 2022 ha trovato riconoscimento anche nella Costituzione italiana attraverso la modifica degli articoli 9 e 41. L’articolo 9 ora stabilisce che la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni. Questa modifica, che si ritrova nelle premesse del codice deontologico degli architetti, non è stata ancora adeguatamente recepita nell’aggiornamento del codice pubblicato nel dicembre 2024, che riporta i testi precedenti alla riforma. Il concetto dei limiti planetari, elaborato dagli studiosi W. Steffen e J. Rockström e aggiornato nel 2023, identifica nove confini oltre i quali l’umanità rischia di compromettere irreversibilmente gli equilibri del sistema Terra. Di questi nove limiti, ne abbiamo già superati sette, inclusa l’acidificazione degli oceani. Questo schema è richiamato dalle istituzioni europee nei loro atti, in particolare nell’Ottavo Piano per l’Ambiente 2021-2030. La rappresentazione grafica degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 evidenzia che i goal legati alla biosfera (clima, ecosistemi marini e terrestri, acqua) costituiscono la base: senza il mantenimento dello spazio operativo in sicurezza non possiamo soddisfare i bisogni sociali e l’economia non può funzionare, perché l’economia dipende dalle risorse che la natura mette a disposizione.​

La transizione digitale deve essere accompagnata dalla consapevolezza degli impatti ambientali lungo tutto il ciclo di vita delle tecnologie digitali. Il Patto Digitale Globale sottoscritto nel 2024 nell’ambito del Patto sul Futuro delle Nazioni Unite impegna i governi a promuovere entro il 2030 la sostenibilità lungo tutto il ciclo di vita delle tecnologie digitali, non solo nella fase di utilizzo. Per gli architetti questo significa considerare, quando si introducono sistemi di domotica o di ottimizzazione energetica negli edifici, non solo i benefici locali ma anche gli impatti esterni: produzione di hardware e software, consumo energetico dei data center, smaltimento dei dispositivi. L’articolo 8 della Nature Restoration Law europea, vincolante per l’Italia, stabilisce che al 2030 nelle zone urbane la copertura arborea deve rimanere quella attuale, impedendo ulteriore consumo delle aree verdi. Questo vincolo, poco conosciuto ma già in vigore, richiede agli architetti e urbanisti un cambio di paradigma nella progettazione urbana.

La decima edizione della 3GA di Pistoia restituisce un quadro complesso e articolato delle sfide che l’architettura e l’urbanistica contemporanee devono affrontare. Dalla dimensione etica della sostenibilità alla questione sociale della casa, dai limiti e dalle opportunità delle aree interne all’integrazione tra natura e tecnologia, emerge con chiarezza che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Quello che serve è un approccio olistico, capace di tenere insieme dimensioni diverse: ambientale, sociale, economica, culturale, tecnologica.

L’architetto del futuro non può più limitarsi a disegnare edifici: deve saper leggere i territori, comprendere le dinamiche economiche che producono rendita e disuguaglianza, conoscere i limiti biofisici del pianeta, padroneggiare le tecnologie digitali senza subirne passivamente gli impatti, valorizzare i saperi tradizionali integrandoli con l’innovazione, progettare spazi che siano non solo funzionali ed efficienti ma anche belli, inclusivi e generatori di comunità. La formula della Nuova Bauhaus Europea – beautiful, sustainable and together – sintetizza efficacemente questa visione integrata che deve guidare la progettazione contemporanea.

L’architettura ha una responsabilità immensa in questa transizione: gli spazi che progettiamo non sono neutrali, plasmano comportamenti, influenzano relazioni, determinano consumi energetici, generano o distruggono biodiversità, includono o escludono, creano bellezza o degrado. Abitare il cambiamento significa assumere fino in fondo questa responsabilità, con competenza tecnica, sensibilità culturale, rigore etico e visione di lungo periodo. Significa progettare non per noi ma per le generazioni future, come recita l’articolo 9 della Costituzione. Significa ricordare, come insegnava Enzo Mari, che il miglior designer è il contadino che pianta castagni pensando al futuro dei suoi nipoti.


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