Prima di addentrarsi nelle singole responsabilità occorre comprendere cosa significhi esercitare una professione intellettuale regolamentata, definizione che nel linguaggio comune viene spesso impropriamente sostituita con “professione protetta”. La Corte di Cassazione Penale, sezioni unite, con la sentenza 11545 del 2012 ha chiarito che i particolari requisiti di idoneità e competenza, le qualità morali e culturali richieste per l’accesso alla professione sono funzionali esclusivamente all’interesse pubblico. Questa natura pubblicistica della professione rende necessaria una diligenza qualificata secondo quanto disposto dall’articolo 1176 comma 2 del Codice Civile.

Responsabilità civile contrattuale: il cuore del rapporto professionale

La responsabilità contrattuale costituisce la forma più frequente di responsabilità con cui il professionista si confronta Essa trova il proprio fondamento nell’articolo 1218 del Codice Civile: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. La formulazione normativa rivela immediatamente un aspetto cruciale spesso trascurato: si parla di prestazione “dovuta”, non semplicemente “convenuta”. Questo significa che gli obblighi del professionista non derivano esclusivamente dal contratto sottoscritto con il committente, ma anche dall’ordinamento giuridico che regola l’attività edilizia.

Il regime probatorio della responsabilità contrattuale presenta caratteristiche specifiche che il professionista deve conoscere: il danneggiato (il committente) deve provare l’esistenza del contratto e l’inadempimento; il debitore (il professionista) deve dimostrare che l’inadempimento o il ritardo è derivato da impossibilità sopravvenuta non imputabile. Questa distribuzione dell’onere della prova rende fondamentale la documentazione continua dell’attività svolta: comunicazioni scritte, relazioni di cantiere, verbali di sopralluogo, email, messaggi WhatsApp conservati sistematicamente costituiscono gli elementi probatori essenziali per dimostrare di aver adempiuto esattamente alla prestazione dovuta o che l’inadempimento è derivato da cause non imputabili.

Responsabilità extracontrattuale: quando il danno colpisce i terzi

La responsabilità extracontrattuale, disciplinata dall’articolo 2043 del Codice Civile, risponde al principio romano del neminem laedere: “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Questa forma di responsabilità prescinde dall’esistenza di un contratto e si manifesta tipicamente nei confronti di soggetti terzi con cui il professionista non ha mai avuto rapporti diretti: l’acquirente successivo dell’immobile che scopre infiltrazioni derivanti da difetti di progettazione o esecuzione, il vicino danneggiato da un crollo parziale, il passante ferito da materiali caduti dal cantiere. La differenza sostanziale con la responsabilità contrattuale riguarda il regime probatorio: in ambito extracontrattuale spetta al danneggiato provare tutti gli elementi costitutivi della responsabilità: il fatto illecito (la condotta), il danno subito, il nesso causale tra condotta e danno, e l’elemento psicologico (dolo o colpa). Questo onere probatorio più gravoso per il danneggiato costituiva tradizionalmente un elemento di protezione per il professionista, ma l’evoluzione giurisprudenziale ha progressivamente eroso questa protezione. La Corte di Cassazione ha infatti elaborato il concetto di “colpa professionale presunta”: quando un progetto presenta errori evidenti rispetto alle regole dell’arte o alla normativa cogente, si presume la colpa del professionista salvo prova contraria.

Un aspetto particolare della responsabilità extracontrattuale riguarda la prescrizione: mentre la responsabilità contrattuale si prescrive in dieci anni, la responsabilità extracontrattuale si prescrive in cinque anni, ma il termine decorre dal momento in cui il danno si manifesta e diventa percepibile dal danneggiato. Questo significa che un vizio occulto di progettazione o costruzione che emerge solo anni dopo il completamento dell’opera fa decorrere i cinque anni di prescrizione da quel momento, non dalla data di ultimazione lavori. Per il professionista questo genera un’incertezza temporale considerevole: potenzialmente può essere chiamato a rispondere di errori compiuti molti anni prima, quando magari non esiste più documentazione facilmente reperibile.

Responsabilità solidale: tutti per uno e uno per tutti

L’articolo 2055 del Codice Civile introduce un meccanismo di responsabilità che nella prassi si rivela particolarmente insidioso per il professionista: “Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate”.

La responsabilità solidale significa che il danneggiato può rivolgersi indifferentemente a uno qualsiasi dei corresponsabili chiedendo l’intero risarcimento, salvo poi il rapporto di regresso interno tra i corresponsabili. Il principio “uno per tutti e tutti per uno” significa che anche se il professionista ritiene la propria responsabilità marginale (magari solo il 20% rispetto all’impresa che ha il 80%), il danneggiato può legittimamente chiedere il 100% del risarcimento al professionista, lasciando a quest’ultimo l’onere di rivalersi in regresso sull’impresa corresponsabile. Questa azione di regresso risulta spesso inefficace se l’impresa è nel frattempo fallita o ha dissipato il proprio patrimonio, lasciando il professionista (o meglio la sua assicurazione) a sopportare l’intero danno pur non essendo l’unico responsabile.

Responsabilità penale: quando l’errore professionale diventa reato

La responsabilità penale costituisce la forma di responsabilità più severa prevista dall’ordinamento, perché incide sulla libertà personale e sullo status del professionista. A differenza della responsabilità civile che mira a ristabilire l’equilibrio patrimoniale violato risarcendo il danno, la responsabilità penale ha finalità sanzionatoria e rieducativa, tutelando interessi fondamentali dello Stato e della collettività. I principi costituzionali che governano la materia penale sono rigorosi: legalità, tassatività, irretroattività, personalità, colpevolezza, presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva.

Per i professionisti tecnici, i reati più frequenti riguardano l’abuso edilizio (articolo 44 del DPR 380/2001, contravvenzione punita con arresto e ammenda), la falsità ideologica in atti pubblici (articolo 481 del Codice Penale, delitto punito con reclusione e multa, si verifica quando il professionista assevera falsamente nella SCIA o nella CILA la conformità dell’intervento alle norme urbanistiche), l’esercizio abusivo della professione (articolo 348 del Codice Penale, delitto che sanziona chi esercita attività riservate senza la speciale abilitazione richiesta dalla legge). Quest’ultimo reato colpisce non solo chi esercita senza essere iscritto all’albo, ma anche chi, pur iscritto, svolge attività riservate ad altre professioni: l’architetto che progetta impianti termici oltre certi limiti di potenza invade le competenze riservate agli ingegneri. La colpa penale si manifesta come negligenza, imprudenza, imperizia, o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline. Questa ultima forma, detta colpa specifica, è più facilmente dimostrabile: se esiste una norma tecnica o giuridica che prescrive una condotta specifica e il professionista non la osserva, la colpa è integrata. La sanzione penale può comportare, oltre alla pena detentiva e pecuniaria, anche pene accessorie come la sospensione dall’esercizio della professione, l’interdizione dai pubblici uffici, la pubblicazione della sentenza. Per i professionisti tecnici esiste un ulteriore effetto collaterale rilevante: la condanna penale, anche per contravvenzioni, può comportare la sospensione di licenze e autorizzazioni.

Responsabilità disciplinare: l’autogoverno della categoria

La responsabilità disciplinare deriva dalla violazione del Codice Deontologico, che disciplina i doveri degli iscritti all’albo nei confronti della professione, dei committenti, dei colleghi, dei terzi e della collettività. Questo codice, pur non essendo legge in senso formale, trova fondamento nella legge 1395 del 1923 che riconosce agli ordini professionali potestà disciplinare sui propri iscritti. Un aspetto fondamentale da comprendere: la responsabilità disciplinare è autonoma rispetto alle responsabilità giuridiche. Questo significa che un professionista può essere sanzionato disciplinarmente anche se assolto in sede penale o civile, perché i parametri di giudizio sono diversi. Il Consiglio di Disciplina valuta la condotta secondo i canoni deontologici (probità, correttezza, diligenza), che possono essere violati anche in assenza di reato o illecito civile. Viceversa, non è automatico che una condanna penale o civile determini sanzione disciplinare, sebbene nella maggioranza dei casi questo accada. La riforma del 2012 ha reso autonomo il Consiglio di Disciplina rispetto all’Ordine professionale: i componenti vengono nominati dal Presidente del Tribunale, garantendo maggiore indipendenza e terzietà. Il procedimento disciplinare può essere avviato d’ufficio o su esposto di terzi (cittadini, clienti, enti pubblici, pubblico ministero). L’esperienza insegna che la maggioranza delle segnalazioni contro professionisti deriva da controversie sul compenso. Il cliente, non volendo pagare l’onorario, segnala il professionista all’Ordine sperando di ottenere un procedimento disciplinare che possa poi essere utilizzato strumentalmente in sede civilistica per giustificare il mancato pagamento. Le sanzioni disciplinari sono graduate: avvertimento , censura, sospensione, radiazione. Anche la sospensione più breve (due giorni) ha conseguenze operative rilevanti: la sanzione viene notificata a tutti gli enti pubblici, e durante il periodo di sospensione il professionista non può svolgere alcuna attività professionale. Se è direttore lavori in cantieri attivi, deve essere sostituito o i lavori devono essere sospesi, perché in quei giorni non può esercitare legittimamente la funzione.

L’obbligo di responsabilità civile professionale

Il decreto del Presidente della Repubblica 137 del 2012, attuativo della riforma delle professioni, ha introdotto all’articolo 5 l’obbligo per tutti i professionisti di stipulare polizza di assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale, con massimale adeguato alla natura dell’attività svolta. La formulazione normativa, scritta all’indicativo presente (“il professionista è tenuto”), ha generato perplessità tra gli operatori: sembra quasi presupporre che il professionista arrechi automaticamente danni, mentre in realtà la ratio è tutelare i clienti garantendo loro la possibilità di ottenere risarcimento anche quando il professionista non disponga di patrimonio sufficiente.

Questa riforma ha modificato profondamente il panorama delle responsabilità professionali, con effetti non tutti previsti. Da un lato, ha effettivamente garantito maggiore tutela ai clienti e ai terzi danneggiati, eliminando situazioni in cui il professionista, pur riconosciuto responsabile, risultava incapiente. Dall’altro, ha reso il professionista assicurato più “attraente” come convenuto in giudizio: sapendo che esiste una compagnia assicurativa tenuta a rispondere entro i limiti del massimale, anche azioni risarcitorie di dubbia fondatezza vengono intentate contando sulla disponibilità dell’assicurazione a transigere piuttosto che affrontare un lungo contenzioso.

Elemento cruciale: la polizza deve coprire non solo la responsabilità contrattuale ma anche quella extracontrattuale e quella solidale. Molte polizze base coprono solo la contrattuale, lasciando scoperte le forme di responsabilità oggi più insidiose. Il professionista deve verificare attentamente le situazioni in cui la polizza non opera: tipicamente sono esclusi dolo, colpa grave accertata, sanzioni amministrative e penali, perdite finanziarie pure (non conseguenti a danno materiale). Importante anche la distinzione tra polizze claims made e polizze loss occurrence.

Strumenti di tutela patrimoniale

Accanto all’assicurazione RC professionale, esistono strumenti giuridici per tutelare il patrimonio personale del professionista da aggressioni derivanti dall’attività professionale. L’ordinamento italiano prevede infatti che determinati beni siano per legge impignorabili (casa di abitazione del debitore entro certi limiti, strumenti indispensabili all’esercizio della professione, alimenti), ma queste tutele sono spesso insufficienti. Il professionista può quindi ricorrere a istituti di separazione patrimoniale che creano “patrimoni destinati” protetti dalle aggressioni dei creditori professionali.

Il fondo patrimoniale (articoli 167-171 del Codice Civile) permette ai coniugi di destinare determinati beni (immobili, mobili registrati, titoli di credito) ai bisogni della famiglia. I beni conferiti nel fondo possono essere aggrediti solo dai creditori per obbligazioni contratte per bisogni familiari, restando protetti dai creditori professionali. La giurisprudenza ha precisato che il fondo patrimoniale costituito prima dell’insorgenza del debito è legittimo; se costituito dopo, può essere impugnato come atto in frode ai creditori se si dimostra che il debitore era già a conoscenza della propria esposizione debitoria. La corretta strategia consiste quindi nel costituire il fondo patrimoniale all’inizio dell’attività professionale: in un momento in cui non esistono debiti né contenziosi in corso, conferendo l’abitazione principale e altri beni significativi, questo garantisce la massima protezione.

La convenzione patrimoniale (articolo 2645-ter del Codice Civile) consente di destinare beni immobili o mobili registrati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, o altri enti o persone fisiche. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e sono opponibili ai terzi una volta trascritti. Questo istituto offre maggiore flessibilità rispetto al fondo patrimoniale ma richiede che l’interesse perseguito sia riconosciuto come meritevole di tutela dall’ordinamento. L’istituto del trust consiste nel trasferimento della titolarità di beni a un soggetto (trustee) che li amministra nell’interesse di uno o più beneficiari secondo le disposizioni del disponente. Il patrimonio in trust è segregato: i creditori personali del trustee non possono aggredirlo, e i creditori del disponente possono farlo solo dimostrando che il trust è stato costituito in frode ai creditori. Il trust presenta grande flessibilità ma anche complessità gestionale e costi elevati che lo rendono conveniente solo per patrimoni consistenti.

In un mercato professionale sempre più competitivo e complesso, dove le responsabilità aumentano mentre i compensi ristagnano o calano, l’unica via non è rassegnarsi da soli ma organizzarsi insieme. Gli ordini professionali vengono spesso visti come strutture inutili, ma in realtà sono l’unica forza organizzata della professione riconosciuta dallo Stato. Il fatto che siano enti pubblici controllati dal Ministero della Giustizia non è un vecchio residuo corporativo: è il riconoscimento che le professioni regolamentate svolgono un servizio di interesse pubblico. Rafforzare questi organismi, parteciparvi attivamente e usare i servizi che sempre più ordini stanno mettendo a disposizione (sportelli per consulenze su assicurazioni, contratti, normativa tecnica, supporto nei contenziosi) è semplicemente una scelta professionale intelligente.

Le polizze di responsabilità civile professionale si distinguono in due categorie principali: claims made e loss occurrence. La polizza claims made copre i sinistri denunciati durante il periodo di vigenza della polizza, indipendentemente da quando si è verificato il fatto che ha causato il danno. La polizza loss occurrence copre i fatti verificatisi durante il periodo di vigenza, indipendentemente da quando viene presentata la richiesta di risarcimento.

Implicazioni operative per l’architetto e scelta della copertura

Per l’architetto la distinzione è fondamentale. Con una polizza claims made, se si scopre un vizio di progettazione nel 2025 relativo a un lavoro eseguito nel 2020, la copertura opera solo se la polizza è ancora attiva al momento della denuncia del sinistro (2025). Se nel frattempo si è cambiata compagnia o si è cessata l’attività senza stipulare una copertura per “fatti pregressi” (ultrattività), il sinistro resta scoperto. Con una polizza loss occurrence, invece, è sufficiente che la polizza fosse attiva nel 2020 quando si è verificato l’errore progettuale, e la copertura opera anche se nel 2025 non si ha più alcuna polizza attiva. Le polizze claims made sono generalmente meno costose ma richiedono particolare attenzione al momento della cessazione dell’attività o del cambio di compagnia: è indispensabile stipulare una copertura postuma (tail coverage) che estenda la garanzia per i sinistri che potrebbero emergere negli anni successivi relativi a fatti avvenuti durante il periodo assicurato. La scelta dipende dalla fase di carriera: per professionisti giovani la claims made può essere più conveniente, ma per chi si avvicina alla pensione la loss occurrence o una claims made con adeguata ultrattività diventa essenziale.

La responsabilità disciplinare è autonoma rispetto alle responsabilità giuridiche (penale e civile): un professionista può essere sanzionato dal Consiglio di Disciplina anche se assolto in sede penale o se il giudice civile ha ritenuto inesistente l’inadempimento contrattuale. Il Codice Deontologico individua doveri che vanno oltre gli obblighi di legge, riguardando correttezza, probità e dignità professionale.

Casistiche frequenti di violazioni deontologiche

Accettare incarichi per i quali non si possiedono competenze adeguate costituisce violazione deontologica anche se poi si demanda de facto il lavoro a consulenti specializzati, perché l’architetto risponde comunque verso il committente. Violare il segreto professionale divulgando informazioni riservate acquisite nell’esercizio dell’attività è illecito deontologico che può non costituire reato se le informazioni non integrano gli estremi della tutela penale. Pubblicizzare la propria attività in modo non veritiero o denigrare i colleghi costituisce violazione deontologica indipendentemente dal danno economico causato. Non adempiere agli obblighi formativi obbligatori è violazione deontologica sanzionabile con sospensione dall’albo, pur non essendo reato né illecito civile. Rifiutare di fornire al cliente la documentazione tecnica di proprietà del committente dopo la conclusione del rapporto, trattenendola come “garanzia” per il pagamento del compenso, costituisce violazione deontologica.

L’articolo 2236 del Codice Civile stabilisce che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave”. Questa norma, nata per i medici chirurghi che affrontano interventi complessi e ad esito incerto, è applicabile per analogia anche agli architetti e agli ingegneri quando la prestazione professionale richiede di risolvere questioni tecniche particolarmente complesse o innovative.

Difficoltà applicative e interpretazione giurisprudenziale

Nella pratica forense l’invocazione dell’articolo 2236 raramente ha successo. La giurisprudenza interpreta restrittivamente il concetto di “speciale difficoltà tecnica”: non è sufficiente che il problema sia complesso per un professionista medio, deve trattarsi di questione che presenta difficoltà oggettive tali da rendere incerto l’esito anche per un professionista esperto e qualificato in quel settore specifico. Progettare un edificio in zona sismica applicando le Norme Tecniche per le Costruzioni, per quanto tecnicamente impegnativo, non integra “speciale difficoltà” perché esistono metodologie consolidate e procedure standardizzate. Potrebbe invece configurare speciale difficoltà progettare un intervento su strutture storiche lesionate con tecnologie innovative non ancora codificate, risolvere problematiche geotecniche in contesti geologici eccezionali, coordinare interventi in presenza di vincoli sovrapponibili (paesaggistico, storico-artistico, sismico, idrogeologico) che generano prescrizioni apparentemente contraddittorie. Importante: quando si ritiene di operare in condizioni di speciale difficoltà tecnica, occorre documentarlo dettagliatamente nella relazione tecnica, evidenziando le problematiche affrontate, le soluzioni alternative valutate, i pareri di specialisti eventualmente consultati, le scelte metodologiche adottate con relative motivazioni. Questa documentazione sarà essenziale in eventuale contenzioso per dimostrare di aver operato con la massima diligenza esigibile nelle circostanze.


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