Il fondamento costituzionale: riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni

Prima di addentrarsi nelle singole normative occorre comprendere un principio fondamentale: non tutti gli organismi possono produrre norme su qualsiasi materia. L’articolo 117 della Costituzione definisce il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni: una norma prodotta da un organismo non competente è illegittima per incompetenza. Questo principio assume rilevanza pratica quando ci si trova davanti regolamenti comunali che disciplinano aspetti che dovrebbero essere di competenza esclusiva statale o regionale. L’articolo 117 stabilisce tre livelli di potestà legislativa. La potestà legislativa esclusiva statale riguarda materie nelle quali solo lo Stato può legiferare e le Regioni non possono intervenire, neanche ripetendo le norme statali. Tra queste materie rientrano la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, nonché l’ordinamento civile. Quest’ultima competenza potrebbe sembrare estranea all’edilizia, ma non lo è: le distanze tra costruzioni su fondi finitimi (articolo 873 del Codice Civile) appartengono alla materia dell’ordinamento civile, dunque sono di competenza esclusiva statale. La potestà legislativa concorrente riguarda materie dove la legge è regionale ma deve rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legge statale. Tra le materie concorrenti si trovano:

  • la tutela della sicurezza del lavoro
  • le professioni
  • la tutela della salute
  • la protezione civile
  • il governo del territorio (fondamentale per l’edilizia).

Prima della riforma costituzionale del 2001 si parlava di “urbanistica”, e il concetto di urbanistica ed edilizia nel mondo del diritto coincideva sostanzialmente. Con la formulazione attuale dell’articolo 117 la parola “urbanistica” è scomparsa, ma la Corte Costituzionale ha chiarito che “appare del tutto implausibile che dalla competenza statale siano stati estromessi aspetti così rilevanti quali quelli connessi all’urbanistica e che il governo del territorio sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto”. La disciplina urbanistica ed edilizia rientrano quindi nel governo del territorio, materia di legislazione concorrente. Infine, tutto ciò che non è di legislazione esclusiva statale o concorrente è di legislazione esclusiva regionale. Questo spiega perché esistono leggi regionali sul governo del territorio diverse tra Regioni: ciascuna esercita la propria competenza legislativa rispettando i principi fondamentali fissati dallo Stato, principalmente nel DPR 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) e nella legge 1150/1942 (legge urbanistica fondamentale).

Testo Unico dell’Edilizia e legge urbanistica: la disciplina conformativa dell’attività edificatoria

Il DPR 380 del 6 giugno 2001 (Testo Unico dell’Edilizia), rappresenta il riferimento normativo nazionale e contiene i principi fondamentali della disciplina edilizia. Nato con l’obiettivo di riunire in un unico testo le svariate discipline che riguardavano l’edilizia, ha progressivamente perso questa unitarietà: subisce due-tre modifiche all’anno e sono nate discipline autonome che lo hanno frammentato. Prima del TUE esisteva un sistema legislativo caotico di “leggi omnibus”, dove disposizioni edilizie, urbanistiche o paesaggistiche venivano inserite in leggi che trattavano tutt’altro.

La legge 1150 del 17 agosto 1942, legge urbanistica fondamentale, resta invece “ferma al palo” nonostante sia nata in pieno periodo bellico. Comprendere l’evoluzione concettuale di questa normativa è fondamentale perché quando si deve attestare lo stato legittimo di un immobile, occorre ricondurre ogni intervento costruttivo alla normativa vigente nel momento in cui è stato compiuto, non valutare con le norme di oggi la legittimità di interventi del passato.

Urbanistica ed edilizia, pur essendo concetti distinti per i tecnici (la prima riguarda la scienza del territorio e la pianificazione, la seconda l’intervento costruttivo), non sempre vengono intesi così nel mondo del diritto. La Corte Costituzionale e la legge 105/2024 hanno ribadito che sono due ambiti distinti ma profondamente intrecciati. L’urbanistica disciplina se è possibile costruire e in che modo. Il se riguarda la possibilità stessa di fare attività edilizia o determinati tipi di attività: in certe zone potrebbe non essere consentita la nuova costruzione ma solo interventi sull’esistente, e anche tra questi solo alcuni (manutenzione ordinaria e straordinaria ma non ristrutturazione edilizia). Il come riguarda le modalità:

  • quantità (volumetrie, superfici, altezze, distacchi)
  • qualità (caratteristiche morfologiche, tipologie edilizie, materiali)
  • requisiti prestazionali (dimensioni minime locali secondo il DM 5 luglio 1975: soggiorno 14 mq, camera matrimoniale 14 mq, camera singola 9 mq, altezze 2,70 m riducibili a 2,40 m).

Il principio dello stato legittimo: fondamento di ogni intervento edilizio

Il decreto legge 76 del 2020 ha introdotto nel TUE la disciplina dello stato legittimo degli immobili, recependo un principio giurisprudenziale consolidato secondo cui “qualsiasi attività edilizia che può essere svolta su una costruzione ha come presupposto necessario che quella costruzione sia legittima”. Un immobile è legittimo quando è stato realizzato in un periodo in cui non era obbligatorio acquisire un titolo abilitativo edilizio, oppure quando è stato realizzato con regolare titolo. La Corte di Cassazione Penale ha affermato che anche un semplice intervento di manutenzione ordinaria presuppone che l’immobile versi in stato legittimo. Questa rigorosa interpretazione si estende alle tolleranze costruttive ed esecutive. Il “Salva casa” ha distinto le tolleranze costruttive (riguardano parametri dimensionali misurabili) dalle tolleranze esecutive (riguardano aspetti geometrici o elementi non commensurabili). Lo stato legittimo presenta tuttavia una dicotomia problematica: la legittimità formale (corrispondenza al titolo abilitativo rilasciato) non esclude l’illegittimità sostanziale (violazione di norme urbanistiche o edilizie). Un titolo abilitativo può essere consolidato e creare legittimo affidamento tutelabile dall’ordinamento, ma se prevede ad esempio volumetrie superiori a quelle consentite dallo strumento urbanistico vigente al momento del rilascio, rimane l’offesa al bene giuridico tutelato (il territorio). Questa discrepanza attende ancora una soluzione organica.

Le discipline settoriali: sicurezza, energia, sismica, barriere architettoniche

Accanto alle discipline urbanistiche ed edilizie, l’attività costruttiva è regolata da molteplici normative settoriali che perseguono tutele pubblicistiche specifiche. Il decreto legislativo 81 del 2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) ha sostituito tutta la legislazione precedente di prima generazione e quella di matrice europea. Per chi progetta luoghi di lavoro, il Titolo II del D.Lgs 81 definisce i requisiti essenziali che questi devono possedere, dettagliati nell’Allegato IV. Non si tratta di formalità burocratiche ma di sostanza della prevenzione.

Le normative sul risparmio energetico e le prestazioni ambientali trovano fondamento nella legge 10/1991 e nel D.Lgs 192/2005, ripetutamente modificati per recepire le direttive europee sull’efficienza energetica degli edifici. La Direttiva “Casa Green” (EPBD IV) impone standard minimi di prestazione energetica e mira a edifici a emissioni zero entro il 2050. A livello europeo, i regolamenti (come il Regolamento Prodotti da Costruzione 305/2011, aggiornato dal Regolamento 3110/2024 che entrerà definitivamente in vigore nel 2026) entrano in vigore direttamente senza necessità di recepimento da parte degli Stati membri. Le direttive invece richiedono trasposizione nella legislazione nazionale entro termini stabiliti, pena procedure di infrazione.

La normativa sismica ha origini drammatiche: prima del terremoto di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908 si progettava con metodi empirici fondati sulla manualistica storica. Il primo decreto del marzo 1909 impose nelle zone colpite di calcolare le strutture secondo il metodo delle tensioni ammissibili, introducendo la scienza delle costruzioni al posto della tradizione empirica. Oggi le Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC 2018) con le relative circolari applicative rappresentano un compendio normativo unico, mentre prima esisteva una pletora di provvedimenti eterogenei. La legge 13 del 1989 ha introdotto disposizioni in favore delle persone con disabilità, successivamente integrate nel TUE ma con il regolamento attuativo (DM 236/1989) ancora vigente. Il principio del design for all e dell’inclusività richiede che gli spazi siano progettati accessibili fin dall’origine, non adattati successivamente. La normativa igienico-sanitaria conserva applicabilità anche se il DM del 1975 è in fase di revisione.

Beni culturali, paesaggio e ambiente: le tutele speciali che incidono sull’attività edilizia

Il decreto legislativo 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, detto anche Codice Urbani) disciplina nella Parte Seconda i beni culturali e nella Parte Terza il paesaggio. Per i beni culturali esiste un vincolo culturale che richiede autorizzazione secondo l’articolo 21, mentre per i beni paesaggistici serve l’autorizzazione paesaggistica. Quest’ultima segue tre regimi: procedimento ordinario per interventi complessi o rilevanti; procedimento semplificato per opere individuate dalla normativa; esclusione dall’autorizzazione per interventi di minima entità. La Convenzione Europea del Paesaggio (Convenzione di Firenze) ha influenzato la definizione stessa di paesaggio contenuta nel Codice.

Il decreto legislativo 152 del 2006 (Testo Unico Ambientale) disciplina rifiuti, aria, acqua e suolo, interessando l’attività edilizia per tutto ciò che riguarda scarichi, depurazione, fosse biologiche, emissioni in atmosfera. Si intrecciano con questa normativa la tutela della natura e della biodiversità: legge sulle aree protette, fauna e caccia, habitat, rete Natura 2000, valutazioni di incidenza ambientale (VIncA), valutazione ambientale strategica (VAS) e valutazione d’impatto ambientale (VIA). Questo intreccio di discipline genera caos, ma risponde alla necessità di tutelare interessi pubblici primari che l’attività edificatoria privata, pur legittima, può pregiudicare.

I titoli abilitativi edilizi: dal controllo autoritativo alla legalità formale

I titoli abilitativi edilizi sono quegli atti mediante i quali la legge riconosce il legittimo svolgimento di un’attività edilizia. Finché un giudice non li dichiara illegittimi, sono legittimi, ma potrebbero essere formalmente legittimi e sostanzialmente illegittimi. Il sistema sanzionatorio del TUE è costruito interamente sul titolo: si viene sanzionati per assenza di titolo, per difformità dal titolo, per variazioni essenziali rispetto al titolo. Questo approccio ha generato un paradosso: in caso di difformità con variazioni essenziali ma con possibilità di doppia conformità (l’intervento è conforme sia alla normativa vigente al momento della realizzazione sia a quella vigente al momento della sanatoria) si può sanare pagando; in caso di assenza totale di titolo, anche se l’intervento è conforme a tutte le norme urbanistiche ed edilizie, si deve demolire. La Corte Costituzionale ha ribadito che “risponde a un fondamentale interesse pubblico sottoporre l’attività edilizia al controllo preventivo della pubblica amministrazione (oggi anche a campione successivo) con conseguente imposizione a chi voglia edificare dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione”. E aggiunge: “rispetto a tale esigenza di controllo è del tutto indifferente la circostanza che la costruzione corrisponda o meno al complesso delle norme che regolano l’attività edilizia”. Questo significa che il controllo autoritativo ha assunto valore di interesse pubblico autonomo, e la violazione dell’obbligo di richiedere il titolo costituisce reato a prescindere dalla conformità sostanziale.

L’evoluzione dei titoli abilitativi riflette mutamenti culturali e politici: dalla licenza di costruzione prevista dalla legge 1150 (limitata ai centri abitati fino al 1967), alla concessione edilizia introdotta dalla legge 10/1977 (non una concessione amministrativa in senso tecnico ma una licenza), fino al permesso di costruire del TUE 2001 affiancato da titoli in regime di autocertificazione come la DIA (Denuncia di Inizio Attività) trasformata in SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) e CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata). Questo progressivo spostamento verso l’autocertificazione con controllo successivo richiede ai professionisti maggiore diligenza qualificata: l’asseverazione implica responsabilità penale in caso di dichiarazioni false o interventi difformi.

I regolamenti europei e le direttive sono due strumenti normativi con efficacia giuridica completamente diversa. Il Regolamento UE, come il Regolamento Prodotti da Costruzione, entra in vigore direttamente in tutti gli Stati membri alla data stabilita, senza bisogno di leggi nazionali di recepimento. La Direttiva invece richiede che ciascuno Stato membro la trasponga nel proprio ordinamento con leggi nazionali entro termini precisi, adattandola alle specificità locali ma rispettando i principi essenziali.

Conseguenze operative per architetti e progettisti

Il Regolamento Prodotti da Costruzione impone che tutti i materiali da costruzione coperti da norma armonizzata europea debbano obbligatoriamente avere marcatura CE e Dichiarazione di Prestazione (DOP) per essere legalmente commercializzati. Quando un architetto prescrive in un progetto materiali privi di marcatura CE pur essendo questa obbligatoria, viola direttamente il CPR esponendosi a responsabilità professionale. L’Italia ha recepito con il decreto legislativo 106/2017 le sanzioni penali per chi viola le disposizioni del CPR. Per verificare l’obbligo: consultare la Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea dove vengono pubblicate le norme armonizzate; se il prodotto rientra nell’elenco, marcatura CE e DOP non sono facoltative ma obbligatorie. Se uno Stato non recepisce una direttiva nei termini, la Commissione Europea avvia procedura di infrazione con sanzioni economiche consistenti nella privazione di agevolazioni e finanziamenti comunitari.

La legge urbanistica 1150 del 1942 introdusse l’obbligo di licenza di costruzione limitato agli interventi all’interno del centro abitato. Tuttavia, la determinazione del perimetro del centro abitato, prevista dal Regio Decreto 2239/1865 e dai regolamenti edilizi, nella pratica venne raramente effettuata in modo formale dai comuni. Solo con la legge ponte 765/1967 (entrata in vigore il 17 settembre 1967) l’obbligo del titolo edilizio venne esteso all’intero territorio comunale.

Metodologia di verifica dello stato legittimo per edifici storici

La verifica richiede un percorso documentale articolato. Primo passo: individuare la data presunta di costruzione attraverso visure catastali storiche, rogiti notarili che menzionano l’edificio, fotografie aeree d’epoca consultabili presso l’Istituto Geografico Militare o i geoportali regionali. Secondo passo: se l’edificio è anteriore al 1942, o alla data di approvazione di un eventuale regolamento edilizio comunale che già prevedeva autorizzazioni, l’intervento poteva essere libero. Terzo passo: per costruzioni tra 1942 e 1967, verificare negli archivi comunali se esisteva delibera di perimetrazione del centro abitato con allegato cartografico. Quarto passo: dal 17 settembre 1967 l’obbligo è esteso a tutto il territorio comunale. L’onere probatorio che il titolo non serviva grava su chi sostiene questa tesi in un eventuale contenzioso giudiziale.

Il Piano Regolatore Generale secondo la legge 1150/1942 è uno strumento urbanistico unitario che contiene sia previsioni strutturali a lungo termine (zonizzazione del territorio, rete viaria principale, vincoli) sia previsioni operative immediate (indici di edificabilità, modalità attuative specifiche per le trasformazioni). Con la riforma costituzionale del 2001, che ha modificato l’articolo 117 attribuendo alle Regioni competenza legislativa concorrente sul “governo del territorio”, tutte le Regioni hanno emanato leggi urbanistiche proprie che hanno innovato profondamente il sistema di pianificazione.

Il nuovo modello: separazione tra piano strutturale e piano operativo

Le leggi regionali hanno introdotto una distinzione netta. Il piano strutturale (chiamato Documento di Piano nel PGT lombardo, o Piano di Assetto del Territorio nel Veneto) definisce l’assetto del territorio a lungo termine, individua gli obiettivi strategici, determina le invarianti territoriali, ma non ha efficacia conformativa diretta sulle proprietà private e non ha scadenza temporale. Il piano operativo (Piano delle Regole in Lombardia, Piano degli Interventi in Veneto) individua le aree effettivamente trasformabili, attribuisce i diritti edificatori concreti, ha efficacia conformativa e scadenza quinquennale. Dopo cinque anni senza attuazione, le previsioni operative decadono e l’area ritorna alla disciplina generale. Conseguenze pratiche: anche se un’area è prevista come edificabile nel piano strutturale, senza previsioni nel piano operativo o senza Piano Attuativo approvato non è automaticamente edificabile. Le varianti al piano strutturale richiedono procedimenti complessi con Valutazione Ambientale Strategica (VAS), mentre le varianti al piano operativo seguono iter semplificati. Prima di progettare occorre verificare l’esistenza di piani attuativi approvati, convenzioni urbanistiche stipulate, vincoli espropriativi con relative scadenze.

Il decreto legge 69/2024 convertito in legge 105/2024 ha modificato l’articolo 34bis del DPR 380/2001 distinguendo due categorie di tolleranze: costruttive ed esecutive. Le tolleranze costruttive riguardano scostamenti nei parametri dimensionali misurabili (altezze, distacchi, cubatura, superficie coperta) fino a un massimo del 2% rispetto ai valori indicati nel titolo abilitativo. Le tolleranze esecutive riguardano irregolarità geometriche, finiture e aspetti non rappresentati graficamente nei progetti ma oggettivamente esistenti, purché non incidano su parametri dimensionali né su vincoli normativi.

Limiti di applicabilità e casi pratici

Le tolleranze costruttive del 2% non costituiscono violazione edilizia solo se lo scostamento non comporta violazione della disciplina urbanistica vigente. Esempio concreto: se la distanza minima dal confine prevista dal regolamento edilizio è 5 metri, e il titolo indica 5 metri, una realizzazione a 4,90 metri potrebbe matematicamente rientrare nel 2% di tolleranza (0,10 metri su 5 metri), ma viola comunque la distanza minima normativa di 5 metri, quindi non è sanabile come tolleranza. Le tolleranze esecutive ammesse comprendono: lievi irregolarità nelle altezze interne che non modificano l’altezza complessiva esterna dell’edificio, piccole modifiche alla distribuzione interna non rappresentate graficamente se non incidono su elementi strutturali o parametri dimensionali, irregolarità nelle finiture esterne (cornici, zoccoli) se non modificano sagoma e prospetti in modo sostanziale. Procedura operativa: per difformità rientranti nelle tolleranze, il tecnico attesta nello stato legittimo la conformità al titolo, allegando elaborati comparativi con misurazioni e calcolo percentuale degli scostamenti. Per difformità superiori alle tolleranze: se sussiste doppia conformità (conformità alla normativa sia al momento della realizzazione sia attualmente) si richiede permesso in sanatoria con sanzione pecuniaria; se manca doppia conformità si richiede demolizione o rimessa in pristino.

Il decreto ministeriale 5 luglio 1975 sui requisiti igienico-sanitari delle abitazioni, nonostante risalga a cinquant’anni fa, resta pienamente vigente in quanto non ancora sostituito da nuova normativa (la revisione è in corso ma non completata). Stabilisce requisiti minimi inderogabili per l’abitabilità che nessun regolamento comunale può ridurre, perché la tutela della salute è materia di competenza concorrente dove lo Stato fissa i principi fondamentali secondo l’articolo 117 della Costituzione.

Requisiti minimi obbligatori e gerarchia normativa

I requisiti principali sono: ogni alloggio deve avere almeno una stanza di soggiorno di 14 metri quadrati; camere da letto matrimoniali minimo 14 mq, singole minimo 9 mq; bagno completo di lavabo, vaso, bidet e vasca o doccia, con aerazione naturale diretta o meccanica forzata (se meccanica, almeno 5 ricambi d’aria all’ora); altezze minime 2,70 metri riducibili a 2,40 metri per corridoi, disimpegni, bagni e ripostigli; per comuni sopra 1000 metri di altitudine l’altezza minima è 2,55 metri; superficie finestrata illuminante non inferiore a 1/8 della superficie calpestabile del locale (rapporto aeroilluminante). I regolamenti edilizi comunali possono solo migliorare questi requisiti rendendoli più restrittivi, mai peggiorarli. In caso di contrasto tra norme: prevale sempre la norma più restrittiva tra DM e regolamento comunale. Attenzione agli interventi sull’esistente: molti regolamenti comunali precedenti al 1975 prevedevano requisiti diversi legittimi per edifici realizzati ante-1975, ma per interventi di ristrutturazione completa con ridistribuzione degli spazi si applicano i requisiti attuali del DM 1975. Alcuni comuni ammettono deroghe se si mantiene la distribuzione esistente senza modifiche sostanziali.

I tre titoli abilitativi edilizi (permesso di costruire, SCIA, CILA) comportano responsabilità professionali radicalmente diverse per il progettista a causa del diverso sistema di controllo amministrativo. Con il permesso di costruire il comune effettua controllo preventivo verificando la conformità del progetto prima del rilascio del titolo. Il progettista ha responsabilità tecnica (il progetto deve essere conforme alle norme) ma non responsabilità penale per false dichiarazioni, perché non assevera ma solo progetta. Se durante i lavori si realizza qualcosa di difforme dal permesso, la responsabilità penale ricade sul direttore dei lavori e sul costruttore.

SCIA e CILA: l’architetto assume la veste di garante pubblico

Con la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) il comune ha 30 giorni per il controllo successivo. Il progettista assevera la conformità dell’intervento alle norme urbanistiche, edilizie, di sicurezza e igiene. Le responsabilità sono: tecnica (il progetto deve essere realmente conforme) e penale per dichiarazioni false secondo l’articolo 19 della legge 241/1990 e l’articolo 481 del Codice Penale. Se il comune accerta difformità entro 30 giorni ordina la rimozione delle difformità o sospende i lavori; se accerta dopo 30 giorni può comunque sanzionare con diffida, sanzioni pecuniarie, ordine di rimessa in pristino. Con la CILA (Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) non esiste controllo preventivo né termine per il controllo successivo. Il progettista assevera l’ammissibilità dell’intervento (manutenzione straordinaria leggera) e la conformità normativa, assumendo responsabilità penale immediata per false asseverazioni. Il comune può accertare abusi edilizi in qualsiasi momento senza limiti temporali. La differenza cruciale: con il permesso il comune “garantisce” prima del rilascio, e un errore interpretativo del progettista può essere corretto durante l’istruttoria; con SCIA e CILA il progettista si assume la piena responsabilità interpretativa, e un errore diventa immediatamente abuso edilizio o reato penale.


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