Il compenso professionale non è solo la remunerazione per un servizio reso, ma il riconoscimento giuridico del valore di saperi specialistici, competenze tecniche e condotte probe che l’ordinamento richiede ai professionisti intellettuali. Nell’attività dell’architetto, dove si intrecciano responsabilità tecniche, culturali e pubblicistiche, la questione del compenso assume una rilevanza che va ben oltre l’aspetto economico: tocca la dignità professionale, l’equilibrio contrattuale e la tutela sia del committente che del professionista. Il quinto incontro del percorso formativo “Avvio alla professione” affronta proprio questo nodo cruciale, che richiede la comprensione non solo delle norme civilistiche generali ma anche dei decreti parametri, del codice deontologico e della recente legislazione sull’equo compenso.
La natura della professione intellettuale regolamentata
Prima di affrontare la questione del compenso occorre richiamare la natura peculiare della professione di architetto: intellettuale perché basata su saperi e conoscenze specialistiche unite a condotte probe improntate alla massima diligenza professionale; regolamentata perché asservita alla tutela di interessi pubblicistici (salute, sicurezza, incolumità pubblica, territorio, ambiente, paesaggio, beni culturali, affidamento dei terzi); riservata perché nell’ambito della professione esistono attività in competenza esclusiva e altre in competenza condivisa con altre professioni.
L’articolo 2229 del Codice Civile stabilisce che la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi. Per gli architetti la legge di riferimento rimane la 1395 del 1923 (legge di tutela del titolo e dell’esercizio professionale) e il suo regolamento attuativo, il regio decreto 2537 del 1925. La mancanza di iscrizione all’albo, da intendersi non solo in senso assoluto ma anche relativo (svolgere attività fuori dai limiti di competenza), non dà diritto al pagamento della retribuzione secondo l’articolo 2231 del Codice Civile. Se ci si cancella dall’albo o si viene cancellati, si risolve il contratto in corso, restando al prestatore d’opera il diritto al rimborso delle spese sostenute e un compenso adeguato all’utilità del lavoro compiuto, non quello da fare. La natura dell’attività è personale (intuitus personae) perché fondata sui particolari saperi, anche se svolta in forma societaria.
L’articolo 2233 del Codice Civile: la norma cardine sul compenso professionale
L’articolo 2233, ancora vigente, stabilisce che se il compenso non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o secondo gli usi, è determinato dal giudice sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. Questa disposizione, scritta nel 1942, mantiene una straordinaria attualità anche dopo l’abrogazione delle tariffe professionali avvenuta nel 2012.
Il comma 2 dell’articolo 2233 contiene un principio fondamentale spesso trascurato: “In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”. L’importanza dell’opera, come chiarito dalla giurisprudenza, si traduce nella complessità dell’opera stessa: più un progetto è complesso, articolato, richiede saperi specialistici approfonditi, più il compenso deve essere adeguato. Il riferimento al decoro della professione, invece, è stato progressivamente abbandonato dalla giurisprudenza: l’idea che una laurea magistrale giustificasse un compenso superiore rispetto a un diploma non trova più applicazione concreta nei giudizi.
La disposizione originaria prevedeva un ordine gerarchico chiaro: primo, accordo tra le parti; secondo, tariffe professionali; terzo, usi; quarto, determinazione giudiziale. Con l’abrogazione delle tariffe professionali obbligatorie attraverso l’articolo 9 della legge 27/2012 (conversione del decreto Monti), questo ordine si è modificato: accordo tra le parti, usi (dove esistenti e documentabili), determinazione giudiziale con riferimento ai decreti parametri. L’accordo tra le parti rimane la forma privilegiata, ma deve rispettare precisi requisiti di forma e contenuto per essere efficace.
La riforma del 2012: abrogazione tariffe e introduzione dei decreti parametri
La legge 27/2012, che ha convertito il decreto legge 1/2012 (decreto Monti), segna uno spartiacque nella disciplina del compenso professionale. L’articolo 9 comma 1 è tranchant: “Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”. Questa abrogazione ha eliminato i minimi tariffari inderogabili che esistevano dalla legge 143 del 1949, aprendo formalmente alla libera determinazione del compenso tra professionista e committente. Tuttavia il comma 2 dello stesso articolo introduce immediatamente un correttivo: “Nel caso in cui sia necessaria una liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante”. Si tratta dei cosiddetti decreti parametri, strumenti tecnici che sostituiscono le tariffe abolite ma solo per finalità specifiche: liquidazione giudiziale del compenso in caso di mancato accordo tra le parti, e determinazione dei corrispettivi da mettere a base di gara nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Il comma 4 dell’articolo 9 stabilisce principi operativi fondamentali: il compenso per le prestazioni professionali è pattuito nelle forme previste dall’ordinamento (forma libera salvo specifica prescrizione), al momento del conferimento dell’incarico professionale. Deve essere reso noto obbligatoriamente in forma scritta o digitale al cliente: il grado di complessità dell’incarico, i dati della polizza assicurativa RC professionale, gli estremi della posizione INARCASSA. In ogni caso la misura del compenso deve essere previamente nota al cliente, adeguata all’importanza dell’opera, e pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, onorari e contributi.
Il decreto ministeriale 140/2012: criteri per la liquidazione giudiziale
Il decreto ministeriale 140 del 20 luglio 2012 rappresenta il decreto parametri per la liquidazione giudiziale del compenso professionale. Applicabile quando manca l’accordo tra le parti o c’è disaccordo sull’interpretazione del contratto, questo decreto fornisce criteri tecnici per calcolare il compenso dovuto al professionista. Non è una tariffa obbligatoria: l’organo giurisdizionale liquida secondo le disposizioni del decreto, ma il professionista resta libero di pattuire compensi diversi in fase contrattuale. Il decreto introduce quattro parametri fondamentali. Il parametro V rappresenta il costo economico dell’opera nelle singole categorie e componenti. Il parametro P è il parametro di base che si applica al costo economico secondo una formula specifica. Il parametro G rappresenta il grado di complessità dell’opera, definito dalla tavola Z-1 allegata, che varia in funzione della natura dell’opera (ad esempio: interventi su edifici di rilevante interesse storico-artistico G da 1,3 a 1,6; edilizia residenziale G da 0,7 a 1,3). Il parametro Q indica la specificità della prestazione, anch’esso definito nella tavola Z-2 per ciascuna fase e categoria di opera.
Il compenso finale viene determinato dalla formula: CP = V × P × G × Q. Apparentemente semplice, in realtà richiede un’analisi articolata perché ogni opera va suddivisa nelle sue componenti (edilizia, strutture, impianti meccanici, impianti elettrici, viabilità, idraulica), ciascuna con il proprio valore economico e i propri parametri. Le prestazioni vengono suddivise in fasi:
- definizione delle premesse (consulenza e studio di fattibilità)
- progettazione (preliminare, definitiva, esecutiva)
- direzione esecutiva
- verifiche e collaudi.
Per ogni fase e ogni categoria esistono prestazioni specifiche con valori Q corrispondenti.
Un aspetto rilevante: se il professionista non ha fatto il preventivo scritto come richiesto dalle norme, il decreto prevede un elemento di valutazione negativa che si traduce in una riduzione del compenso liquidato. Il criterio generale sembra essere un taglio del 30% circa rispetto a quello che risulterebbe dall’applicazione integrale del decreto. Questa disposizione rappresenta un incentivo forte alla regolarizzazione formale dei contratti professionali, oltre a tutelare i committenti da prestazioni non adeguatamente documentate.
Il decreto ministeriale 17 giugno 2016: parametri per i lavori pubblici
Accanto al DM 140/2012 esiste il decreto ministeriale del 17 giugno 2016, il cosiddetto decreto parametri bis, specificamente dedicato ai corrispettivi da mettere a base di gara nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici. Questo decreto si applica obbligatoriamente per determinare l’importo che le stazioni appaltanti devono prevedere nei bandi di gara per i servizi di architettura e ingegneria.
La struttura è analoga al DM 140/2012 (categorie opere, parametri V, P, G, Q, fasi prestazionali), ma i valori numerici e le tabelle sono completamente diversi. Questo perché la prestazione professionale per opere pubbliche ha sempre richiesto un livello di elaborazione, documentazione e controllo superiore rispetto alle opere private. La vecchia tariffa professionale della legge 143/1949 si applicava fondamentalmente ai lavori privati, mentre per i lavori pubblici esisteva una tariffa particolare, l’ultima delle quali risaliva al 2001.
Nasce una questione interpretativa rilevante: quale decreto utilizzare quando un organo giurisdizionale deve liquidare il compenso per un incarico pubblico? Il DM 140/2012 (previsto dal comma 2 dell’articolo 9) o il DM 2016 (previsto dallo stesso comma 2 per i contratti pubblici)? La giurisprudenza non è univoca.
Il codice deontologico: obbligo di forma scritta e previsione contrattuale
Il codice deontologico degli architetti introduce obblighi specifici in materia di compenso che si aggiungono a quelli previsti dalla normativa civilistica. L’articolo 24 stabilisce che l’incarico professionale, qualunque sia la forma contrattuale, deve essere redatto in forma scritta. Questo obbligo, non previsto dal Codice Civile (che ammette la forma libera), diventa vincolante per il professionista iscritto all’albo: violarlo non comporta nullità del contratto ma configura responsabilità disciplinare.
Il contratto deve essere completo di preventivo del costo delle opere e onorari professionali, sottoscritto dalle parti. Il professionista deve determinare per iscritto il compenso secondo criteri da specificare nel contratto, nel rispetto dell’articolo 2233 del Codice Civile e di ogni altra norma vigente.
La formulazione “criteri da specificare” significa che non basta indicare un importo forfettario complessivo: occorre esplicitare il metodo di calcolo, le fasi prestazionali considerate, le singole voci di costo che compongono il compenso totale. Questa previsione deontologica si coordina con l’articolo 9 comma 4 della legge 27/2012 che richiede la pattuizione “indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, onorari e contributi”.
Il concetto di singole prestazioni e singole voci di costo impedisce di fatto la determinazione del compenso a forfait senza specificazioni. Se si vuole offrire un compenso forfettario al cliente (pratica comunque legittima), è necessario comunque scomporre il forfait nelle sue componenti analitiche, indicando quale parte riguarda ciascuna fase prestazionale e ciascuna voce di costo, per poi eventualmente applicare uno sconto o una riduzione globale. L’articolo 24bis del codice deontologico richiama espressamente l’obbligo di rispettare le vigenti disposizioni in materia di equo compenso nei casi previsti dalla legge 49/2023. La formulazione potrebbe sembrare ridondante (se una legge lo impone, va rispettata a prescindere dal codice deontologico), ma ha una ratio precisa: trasformare la violazione della legge sull’equo compenso anche in illecito disciplinare, con conseguenze sia sul piano giuridico che su quello ordinistico.
La legge 49/2023 sull’equo compenso: ambito applicativo e tutele
La legge 49 del 2023 sull’equo compenso rappresenta l’evoluzione di un percorso iniziato nel 2013 con gli avvocati, che si trovavano in difficoltà nei rapporti con committenti dotati di potere contrattuale decisamente superiore: banche, assicurazioni, grandi aziende, pubbliche amministrazioni. L’idea sottostante è che l’autonomia contrattuale non possa legittimare squilibri tali da negare la dignità professionale e il riconoscimento di un compenso proporzionato all’attività svolta.
La legge si applica ai rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale regolati da convenzioni (quindi contratti), anche in forma associata o societaria, svolte in favore di: imprese bancarie e assicurative, nonché delle loro società controllate e mandatarie; imprese che nell’anno precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di 50 lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro; pubblica amministrazione e società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.
Sono escluse dall’ambito di applicazione le prestazioni rese in favore di società veicolo di cartolarizzazione e altre specifiche categorie identificate dalla legge. L’equo compenso ha quindi un campo di applicazione delimitato a determinati soggetti committenti qualificati. Con i committenti privati “ordinari” (persone fisiche, piccole imprese, professionisti) non si applica la legge sull’equo compenso ma rimangono validi i principi generali dell’articolo 2233 del Codice Civile.
Le clausole che non prevedono un compenso equo, parametrato e proporzionato all’opera prestata, sono nulle quando inserite in accordi preparatori, definitivi o comunque vincolanti per il professionista. La legge introduce presunzioni di equità, il potere di richiedere il parere di congruità all’ordine professionale con efficacia di titolo esecutivo, e sanzioni per il committente che imponga condizioni manifestamente inique. Tuttavia, come spesso accade, un potere forte rimane un potere forte: la legge fornisce strumenti di tutela, ma la loro effettività dipende dalla capacità e volontà del professionista di farli valere, anche a costo di rinunciare a incarichi economicamente non sostenibili.
L’ingiunzione di pagamento e il parere di congruità dell’ordine
Quando il cliente non paga il compenso pattuito o liquidato, il professionista può ricorrere al procedimento speciale di ingiunzione disciplinato dagli articoli 633 e seguenti del Codice di Procedura Civile. L’articolo 633 stabilisce che su domanda di chi è creditore di una somma liquida di denaro, il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti a chi esercita una libera professione per la quale esiste una tariffa legalmente approvata.
L’articolo 636 specifica che nei casi previsti la domanda deve essere accompagnata dalla nota delle spese e prestazioni munita della sottoscrizione del ricorrente, corredata dal parere della competente associazione professionale (l’ordine). Il parere non occorre se la misura delle spese e prestazioni è determinata in base a tariffe obbligatorie. Siccome le tariffe obbligatorie non esistono più dal 2012, per l’ingiunzione si rende più che opportuno il parere di congruità del compenso professionale rilasciato dall’ordine di appartenenza. Gli ordini territoriali hanno generalmente istituito commissioni dedicate che operano gratuitamente e che esaminano le richieste di parere di congruità. Il professionista presenta la documentazione contrattuale, il dettaglio delle prestazioni effettuate, il calcolo del compenso richiesto, e la commissione verifica la corrispondenza con i criteri dei decreti parametri e rilascia parere motivato. Questo parere, pur non essendo vincolante per il giudice, costituisce un elemento istruttorio significativo che rafforza la posizione del professionista nel procedimento di ingiunzione.
L’articolo 24 del codice deontologico – in vigore dal 2 dicembre 2024 – richiede che l’incarico professionale sia redatto in forma scritta, obbligo non previsto dal Codice Civile che ammette forma libera. La violazione non comporta nullità del contratto dal punto di vista civilistico (che rimane valido anche verbalmente), ma espone il professionista a responsabilità disciplinare. Le sanzioni possibili sono: richiamo per la prima violazione (comunicazione riservata al professionista senza annotazione permanente); censura in caso di recidiva (atto ufficiale annotato nella “fedina disciplinare” del professionista, consultabile nei procedimenti futuri); sospensione dall’esercizio professionale da uno a sei mesi in caso di violazioni reiterate o particolarmente gravi; radiazione dall’albo nei casi più estremi combinati con altre violazioni. Importante: il procedimento disciplinare è separato da eventuali contenziosi civilistici con il committente. Un contratto verbale che genera controversia sul compenso espone il professionista sia a difficoltà probatorie nel giudizio civile (mancanza di documentazione di quanto pattuito) sia a procedimento disciplinare per violazione del codice deontologico.
Il DM 140/2012 è il decreto parametri previsto per la liquidazione giudiziale del compenso: quando manca accordo tra le parti o c’è disaccordo sull’interpretazione del contratto, l’organo giurisdizionale liquida il compenso con riferimento a questo decreto. Si applica sia per incarichi privati che pubblici in sede di contenzioso. Il DM 17 giugno 2016 (decreto parametri bis) è specifico per determinare i corrispettivi da mettere a base di gara nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici: le stazioni appaltanti devono utilizzarlo obbligatoriamente per calcolare l’importo da inserire nei bandi. Esiste una zona grigia interpretativa: quale decreto usa il giudice per liquidare un compenso relativo all’incarico pubblico in assenza di accordo? La giurisprudenza non è univoca. Strategia operativa: in fase di pattuizione contrattuale il professionista può utilizzare i criteri del decreto più favorevole (generalmente il DM 2016 prevede valori superiori per le prestazioni pubbliche). Se ben documentato, diventa l’accordo pattuito tra le parti che prevale su entrambi i decreti.
Singole prestazioni sono le fasi in cui si articola l’attività professionale complessiva secondo il DM 140/2012: definizione delle premesse (consulenza, studio di fattibilità), progettazione (preliminare, definitiva, esecutiva), direzione esecutiva, verifiche e collaudi. Ogni fase ha prestazioni specifiche dettagliate nella tavola Z-2. Esempio pratico per progettazione definitiva edilizia: relazione generale e tecnica con elaborati grafici; calcoli preliminari strutture; calcoli preliminari impianti; computo metrico estimativo; quadro economico; capitolato speciale d’appalto; elenco prezzi unitari; cronoprogramma. Ognuna di queste è una singola prestazione con valore Q specifico. Singole voci di costo sono le componenti economiche del compenso: onorari professionali (divisi per fase e categoria opera), spese (trasferte, diritti di segreteria, copie elaborati, oneri per pratiche), contributi previdenziali INARCASSA, eventuali rimborsi specifici. Il contratto deve indicare per ciascuna fase prestazionale: quali elaborati/attività sono compresi, quale valore Q si applica, quale compenso parziale ne deriva, quali spese accessorie sono previste. Somma di tutti i compensi parziali + spese + contributi = compenso totale. Non è ammesso indicare solo compenso forfettario globale senza specificare questa scomposizione.
La legge sull’equo compenso si applica solo quando il committente rientra in categorie specifiche qualificate per potere contrattuale: imprese bancarie, assicurative e loro società controllate o mandatarie (tutte, indipendentemente da dimensione e fatturato); imprese che nell’anno precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di 50 lavoratori (anche non contemporaneamente, conta il numero complessivo nell’anno); imprese che nell’anno precedente hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro (il fatturato va verificato nell’anno solare precedente, non nell’esercizio fiscale); pubblica amministrazione in tutte le sue articolazioni (Stato, Regioni, Province, Comuni, enti pubblici); società disciplinate dal testo unico sulle società a partecipazione pubblica. Importante: i due requisiti dimensionali (50 dipendenti o 10 milioni fatturato) sono alternativi, non cumulativi: basta che sussista uno dei due perché si applichi la legge. Non si applica a: persone fisiche, committenti privati, professionisti, piccole imprese sotto le soglie, società veicolo di cartolarizzazione specificamente escluse. Per verificare se il committente rientra nelle categorie: richiedere dichiarazione sostitutiva sul numero dipendenti e fatturato anno precedente; verificare su registro imprese per dati pubblici; in caso di dubbio, applicare comunque i principi di proporzionalità e adeguatezza previsti dall’articolo 2233 Codice Civile che valgono sempre.
Il parere di congruità è richiesto dall’articolo 636 CPC per procedimenti di ingiunzione relativi a compensi professionali. La procedura operativa prevede sei passaggi. Primo: raccogliere documentazione completa (contratto scritto o scambio corrispondenza che configura accordo, preventivo inviato al cliente, elaborati consegnati con ricevute o PEC, eventuali varianti concordate in corso d’opera, solleciti di pagamento inviati, fatture emesse). Secondo: preparare nota dettagliata del compenso richiesto articolata per le singole prestazioni effettivamente svolte, con calcolo secondo DM 140/2012 o DM 2016 dimostrando applicazione parametri V, P, G, Q. Terzo: presentare istanza all’ordine territoriale di appartenenza con documentazione allegata. Quarto: la commissione competenze (la denominazione varia tra i diversi ordini) esamina la pratica verificando l’effettivo svolgimento prestazioni dichiarate, la congruità del metodo di calcolo applicato, la corrispondenza con i decreti parametri, l’assenza di evidenti sproporzioni. Quinto: l’ordine emette parere motivato (generalmente entro 30-60 giorni). Sesto: utilizzare parere come allegato alla domanda di ingiunzione ex articolo 633 CPC indirizzata al giudice competente tramite avvocato. Costi: generalmente gli ordini richiedono rimborso spese per istruttoria (100-300 euro circa). Tempi complessivi: 2-4 mesi da istanza a parere.







